‘Siamo il mestiere che facciamo’: ma cosa succederebbe se, improvvisamente, quel mestiere non servisse più? Cosa accadrebbe se la tecnologia diventasse così potente e sofisticata da rimpiazzarci? In un libro che spazia dalla macro-economia alla sostenibilità, andando a toccare profonde tematiche di natura etica e sociale, Marco Magnani ci spalanca le porte (e la mente) su un mondo così simile eppure profondamente diverso da quello che siamo abituati a conoscere. Economista, Professore alla Luiss e Senior research fellow alla Harvard Kennedy School, MBA Alumnus della Columbia Business School e Presidente dell’Alumni Club italiano di Columbia, Marco Magnani ci parla del suo nuovo libro ‘Fatti non foste a viver come robot’ e ci guida ‘attraverso lo specchio’ insieme a lui, alla scoperta di un mondo che verrà.
Come è nata l’idea di questo libro?
Nel corso della storia le innovazioni (tecniche, scientifiche, organizzative) hanno sempre determinato un aumento della crescita economica e dell’occupazione. Pensiamo alla macchina a vapore: inizialmente non ha portato a un incremento dei posti di lavoro, ma dopo qualche tempo si è creato un nuovo equilibrio caratterizzato da maggiore ricchezza e occupazione, e quindi a un saldo netto nel complesso positivo. Data questa premessa, la domanda che mi sono posto è: ‘Sarà così anche questa volta?’ E la risposta che ho trovato è un ‘Sì, però, …’. ‘Sì’ perché le innovazioni aumenteranno la produttività e quindi creeranno maggiore ricchezza. ‘Però’ perché ci saranno maggiori vincoli di sostenibilità e una diversa ripartizione dei benefici. Sostenibilità non solo ambientale: pensiamo alla sostenibilità demografica, energetica, alimentare, sanitaria e sociale. Proprio della sostenibilità sanitaria stiamo, purtroppo, comprendendo l’importanza in questo periodo di pandemia.
Un possibile problema è che le innovazioni tecnologiche aumenteranno la crescita economica, ma la risposta non è così netta in termini di occupazione. In effetti, potremmo assistere ad un fenomeno di ‘disoccupazione tecnologica’: ovvero, a una crescita dell’economia ma con minor occupazione.
Questa ‘disoccupazione tecnologica’ interesserà tutti i campi e le professioni o esiste un ‘fattore uomo’ che non potrà mai essere rimpiazzato da un robot?
I cambiamenti saranno numerosi, ma con differenti gradazioni: a fronte di mestieri interamente cancellati dalla tecnologia, ce ne saranno altri che cambieranno profondamente (e non è detto che le stesse persone che oggi lo svolgono saranno le più adeguate per continuare a farlo in futuro) e poi ci saranno mestieri del tutto nuovi. A differenza delle precedenti ondate di industrializzazione, queste tecnologie non vanno a rimpiazzare soltanto i lavori pericolosi, pesanti e ripetitivi, ma insidieranno sempre più professioni a livello intellettuale medio-alto. Ad esempio il notaio, l’avvocato o il trader, e perfino il medico.
In molti casi, questo non significa che l’intera professione verrà spazzata via, ma serviranno meno professionisti. Pensiamo ad una tecnologia che permetta, scattando una foto con il telefonino, di comparare la foto di un neo a tantissime altre e di prevedere, con un grado di accuratezza molto elevato, la presenza o meno di un melanoma. Questo non farebbe scomparire in toto i dermatologi, ma sicuramente ne servirebbero meno. Rimangono alcune aree in cui l’uomo continuerà ad essere importantissimo: nelle mansioni in cui sia richiesta una capacità decisionale, una spiccata abilità relazione o laddove l’empatia sia determinante. Vi sono poi mestieri che potrebbero essere ‘tecnicamente’ svolti dalle macchine, ma per i quali gli uomini si rifiutano di essere sostituiti: per esempio, infermieri o badanti. Nonostante esistano già robot-infermieri, non sono sempre ben accolti dai pazienti. Un altro caso da considerare è quando l’automazione sollevi problemi etici: le auto senza pilota possono incorrere in situazioni in cui oltre al motore, serve avere una coscienza. Lo steso vale per molte applicazioni di intelligenza artificiale.
Hai parlato di professioni che non verranno interamente sostituite, ma che vedranno semplificati alcuni compiti grazie all’intervento della tecnologia. Questo vuol dire che i nuovi professionisti si troveranno con più tempo libero da impegnare? O, paradossalmente, che ci saranno alcune persone che non avranno neanche più bisogno di lavorare?
La mancanza totale di lavoro (ovvero ‘far lavorare i robot mentre io mi dedico ad altre attività’) non è per me un obiettivo a cui anelare. Questo perché il lavoro ha anche una funzione identitaria e sociale: “siamo il mestiere che facciamo”.
Storicamente la settimana corta non ha mai decollato, “lavorare meno, lavorare tutti” è un compromesso che non ha mai veramente funzionato. C’è però margine per andare verso un mondo in cui poter fare più cose diverse. E la tecnologia è sicuramente di grande aiuto: sia per essere più produttivi sia per svolgere varie mansioni allo stesso tempo. Rimane però vero che se la produttività aumenta, servono meno persone: la torta si allarga in quanto si ha più ricchezza, ma questa ricchezza tenderà a concentrarsi. Con l’aumento della produttività, solitamente la ricchezza generata è ripartita tra la remunerazione del capitale, del lavoratore e del consumatore (attraverso una diminuzione dei prezzi). In un mondo più automatizzato, aumenta la ricchezza, ma non essendoci più il lavoratore, questa ricchezza verrà suddivisa solo tra chi ha investito nel capitale e i consumatori (tramite l’effetto dei prezzi). La ricchezza si concentrerà quindi soprattutto in chi ha capitali da investire. Come ovviare a questo fatto? Intervenendo con la re-distribuzione o, meglio, con la ‘pre-distribuzione’. La re-distribuzione parte dall’idea di tassare il proprietario delle macchine per trasferire ricchezza a chi perde il lavoro a causa dell’automazione. Ciò è necessario nel breve termine, ma a più lungo andare è fonte di tensione tra chi è favorevole all’innovazione perché vi ha investito il proprio capitale e che invece cerca di frenarla per non perdere il proprio posto di lavoro.La mia proposta è, nel lungo periodo, di fare più ‘pre-distribuzione’: ogni cittadino riceve una quota di ‘equity’ di un fondo sovrano che detiene partecipazioni in tutte le imprese (perché tutte beneficiano dell’innovazione tecnologica in termini di aumento di produttività). In tal modo, ognuno gode di due rendite: una derivante dal proprio lavoro, e una dalla propria quota di ‘equity’. Se perdi il lavoro, continui comunque a essere un piccolo azionista: i tuoi redditi sono diversificati.
Nel libro si parla di 12 ‘disruptive innovations’ che saranno alla base di questa nuova era. Qual è la più significativa, la vera chiave di volta?
Le dodici innovazioni citate sono le seguenti: robotica avanzata (compresi i droni), auto senza pilota, stampa 3D e manifattura additiva, internet delle cose, big data, calcolo quantistico, archiviazione cloud e nuvola informatica, intelligenza artificiale (con machine e deep learning), realtà aumentata e virtuale, blockchain, nanotecnologie e nanomateriali, e biotecnologie.
A differenza del passato dove tra un’innovazione e l’altra intercorreva un lasso di tempo elevato (tra la prima e la seconda rivoluzione industriale passa quasi un secolo), oggi le innovazioni avvengono con maggior frequenza, sono più pervasive e sono strettamente collegate. Non c’è un’innovazione trainante rispetto alle altre, anzi c’è un effetto combinatorio. Pensiamo alle interconnessioni tra intelligenza artificiale, cloud e big data: se una di queste avanza, alimenta ed accelera anche le altre. E la concatenazione aumenta l’intensità dell’impatto.
Ciò ha conseguenze importanti sul mondo del lavoro: non si fa in tempo a imparare un nuovo mestiere, che una nuova innovazione tecnologica cambia ancora una volta il modo di svolgerlo.
Il mondo è pronto per questa rivoluzione o verremo tutti colti alla sprovvista?
Ci saranno dei territori (città, distretti, paesi) che sapranno affrontare questo tsunami e questa ondata di innovazioni senza precedenti nella maniera migliore. Per questi territori l’effetto sarà globalmente positivo: è vero che si perderanno alcuni mestieri, ma saranno sostituiti da altri, più nuovi. I territori più attrezzati, con una classe politica con una visione ambiziosa diventeranno ‘hub’ dove si concentreranno nuove professioni. Proprio grazie alla mobilità e flessibilità delle nuovi professioni, sarà possibile lavorare in un luogo, ma offrire il servizio anche a clienti situati in luoghi fisicamente distanti. Non è come in passato quando c’era bisogno della prossimità fisica per svolgere lavori manuali: il Data Manager, il Data Scientist, il Web Designer, possono vivere in un luogo e offrire i propri servizi in altri.
Si assisterà quindi ad una polarizzazione: non solo nella società tra chi sa usare le nuove tecnologie e chi no, ma anche tra territori. E’ un trend d’altronde già visibile: basti pensare al contrasto tra la Silicon Valley americana e altri territori di industria tradizionale (come Detroit) che sono in declino. La vera domanda da porsi è cosa determini se un territorio sia pronto o meno. Una variabile importante è data da qualità, coraggio e lungimiranza della classe dirigente (sia economica sia politica) …
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